Viri
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In morte di Virginio Rosetta
Leo Pestelli
"La Stampa", 1° aprile 1975
Non sono più legioni, purtroppo, quelli che ricordano dal vivo e possono raccontare ai nipoti Virginio Rosetta (popolarmente «Viri» o per antonomasia «l'inglese»), il classico terzino bianconero dei cinque «scudetti» in fila, che quando nel vocabolario calcistico non era ancora la parola «geometria», seppe sul prato tradurne l'idea.
L'atleta era di statura giusta e di costituzione traversa. Gambe piuttosto corte; passo o passetto serrato, come di chi trottasse alla soddisfazione di un bisogno pratico; composto sempre, con un'aria di volto imperturbabile, quasi resecata dalla psicologia, che per ciò stesso effondeva quella calma che in un'area di rigore è coefficiente supremo di sicurezza. Né la sua espressione mutò da poi che il Tempo ebbe agio di solcare quel volto delle rughe profonde e buone del bulldog.
Riassumeva tutto il bello della freddezza del gioco del calcio. Nemico d'ogni fronzolo, alieno da effettismi e spettacolosità, egli rassettava la sua porzione di campo con passaggi e rilanci di portentosa misura e chiaroveggenza, scherzando col pericolo come il gatto col topo. Ragioniere in vita e ragionatore in campo, sulla linea di porta o presso la bandierina del corner, in quei punti di tremore dov'era questione di centimetri, compiva pianamente le cose più belle. Ma quando si slargava, là dove andava la palla era lui e dove andava lui era la palla: per reciproca attrazione. Agli imperiti poteva sembrare calcio d'ordinaria amministrazione; ed era invece calcio essenziale, sagace e disadorno come la politica giolittiana.
Nel suo saggio su Pope, il De Quincey distingue tra «letteratura di conoscenza» e «letteratura di forza», dicendo che, mentre la prima si presenta in una luce secca ed asciutta, la seconda opera attraverso una luce umida, costituita dall'iride delle umane passioni; e che quella insegna e questa commuove. Si parva licet, Rosetta rappresentò il «calcio di conoscenza»: tanto più spiccatamente lo rappresentò, che il destino (allora che i terzini giocavano sulle ali) gli affiancò un compagno ch'era il suo opposto preciso: quel Caligaris dalla fronte fasciata come un bucaniere di Salgari, dalla battuta spensierata, dal «tackle» falciante e le temerarie escursioni, che per parte sua rappresentò, fino alle soglie del mito (la morte sul campo), il «calcio di forza». Due difensori più diversi e meglio armonizzati sul comune baluardo del grande Combi, la nostra squadra non ebbe mai.
Rosetta era nato a Vercelli, e cresciuto in quella squadra di titani, ne divenne presto una colonna portante (due scudetti). Per uno di quei disguidi non infrequenti nelle storie d'amore (prima di «Giulietta» ci fu bene «Rosalina»), chi scrive s'immaginò per breve tempo d'essere un tifoso della «Pro». L'illusione si sciolse appunto nel 1923, quando, tra roventi polemiche, «Viri» passò dai «bianchi» ai «bianconeri». E non vi passò mica per i begli occhi dell'allora ancor giovane «Signora». Alla fredda storiografia basterebbe questo per tramandare il nome di Rosetta: ch'egli fu il primo calciatore il cui trasferimento fosse oggetto di mercato (prezzo 50 mila lire). E si capisce: col suo «esprit de geométrie» egli suggeriva l'idea d'un congegno prezioso; e un congegno sollecita sempre l'Economia a interessarsene. Quel trasferimento patteggiato non fu un caso di leso sport, come dissero allora i malinconici, ma un naturale portato dell'evoluzione del gioco. Rosetta fu il primo professionista nella storia del nostro calcio, perché anche fu il primo che giocasse da professionista, con lucido stile utilitario. Piemontese di razza era più che sobrio di effusioni: non per lui prese piede l'usanza di quasi linciare, amoris causa, il compagno marcatore del goal; credo che non lo baciasse nemmeno.
Quando, onusto di onori e di primati (anche come «azzurro»), lasciò la palla, non fu più lui. La seconda vita del calciatore, la precettiva, non gli fu larga di soddisfazioni. Perché si può insegnare quello che si sa per scienza; meno bene, quello che si fa per dono. D'indole chiusa e un po' ruvida, il sìio «tocco» con la gente non era paragonabile a quello col pallone, di cui era maestro. Ma la Società, come suol fare, lo tenne in famiglia, affidandogli incarichi esplorativi ch'egli assolse onorevolmente, ma senza genio; il genio gli era rifluito coll'ultimo «disimpegno» sul campo. Per alcuni anni lo incontravamo nei paraggi della sede sociale: per lo più solo, taciturno e sempre più segnato. E fu un pessimo segno quando cominciammo a vederlo sempre meno e poi più. Silenziosamente si era ritirato.
Ma che peccato che Guido Donini (Guidus Donini), il cui premiato Carmen «Aiacis Laude» (sulla finale di Coppa «Aiax-Juventus») ha tenuta alta la tradizione latinistico-pascoliana alla reale Accademia di Amsterdam, sia nato troppo tardi. Esiti squisiti come quello che rende il goal fatale: «.... discessit limine paulum | adversus sphaeram Zoffus deceptus; at ecce | angulus oppositus retis violatur aperte!», fanno dolere che insieme con i Cuccureddus i Causius i Cruyffus ecc., non sia potuto trovarsi il nostro Rosetta, il cui nome (anche per ragioni morfologiche: rosa, rosae ...) sarebbe mirabilmente convenuto e quegli esametri.
Non importa. «Viri» resta nell'aurea leggenda juventina, accanto ai patres; e arriso più d'ogni altro, in ragione della severa grazia con cui giocava, da quel divinatorio verso di Francesco Petrarca che l'inettitudine dei tifosi ha finora lasciato inoperoso: «Del bel dolce soave bianco e nero» (Rime. CLI, 7).
Leo Pestelli