Nel '38 i rapporti fra Italia e Francia erano pessimi (altro che i piccoli bisticci attuali), come constatò la nazionale di Pozzo durante i mondiali organizzati dai nostri vicini. Agli azzurri, campioni in carica, fu riservata un'accoglienza fragorosamente ostile: rappresentavano un nemico politico da umiliare, non solo la squadra da battere. Vien da sorridere paragonando le giustificazioni ambientali accampate, talvolta, oggi dai calciatori sconfitti a quel clima feroce. Ci voleva gente di scorza assai dura per resistere a simili pressioni, domare avversari e pubblico, vincere tutte le partite e tenersi il titolo. La squadra di Pozzo vi riuscì realizzando, proprio per le condizioni quasi proibitive, la maggiore impresa agonistica della nostra storia sportiva. Tutti lottarono aspramente, anche gli artisti come Meazza; ma fu Silvio Piola a decidere ogni incontro, a travolgere qualsiasi ostacolo. Segnò nei supplementari il gol della vittoria sulla Norvegia; ammutolì i francesi liquidando a Parigi, con una doppietta, la loro nazionale; procurò a Marsiglia il rigore con cui eliminammo il Brasile; schiantò con due reti l' Ungheria in finale.
Silvio Piola, massimo centravanti espresso dal calcio italiano in un secolo di storia, si è spento ieri a 83 anni. Era schivo, quasi scontroso nella sua timidezza. L'ambiente l'aveva dimenticato in fretta e lui non si era certo adoperato per farsi ricordare: apparteneva a una generazione per cui l'essere contava infinitamente più che l'apparire. Quanto aveva fatto in campo gli bastava; meglio andarsene a caccia e invecchiare serenamente in disparte. Vedeva nascere e tramontare tanti campioni ma nessuno si avvicinava ai suoi primati, nessuno riusciva a scalzarlo dal trono di migliore goleador del nostro campionato. Nordahl, Altafini, Vinicio, Charles, Riva, Paolo Rossi, eccetera: tutti pigmei al suo confronto. Accumulò un bottino ineguagliabile: 290 reti in 565 partite di serie A. Doveva essere fatto di acciaio; solo cosiì è spiegabile l'incredibile lunghezza della sua carriera: debuttò a 16 anni e mezzo, chiuse a oltre 41. Ed era un centravanti. I difensori di allora non usavano certo modi più gentili di quelli attuali, anzi; ma era così duro che a picchiarlo ci si faceva male. Un atleta sul metro e ottanta: veloce come un falco, poderoso come un ariete. Irresistibile in contropiede, irrefrenabile sotto porta. Per rendere l'idea un mix fra Boksic e Casiraghi. Aveva tutto: tiro, colpo di testa e una straordinaria qualità acrobatica. Celebri le sue rovesciate cui dedicava ore di addestramento. Si allenava molto in aggiunta al lavoro abituale, era parco e sobrio come costume di vita. Forse anche per questo è durato tanto. Aveva soprattutto il carattere di un combattente indomabile e tranquillo: mai un'espulsione, mai una caduta emotiva. Pozzo lo fece esordire in nazionale a poco più di 21 anni; doveva sostituire Meazza, si giocava a Vienna dove gli azzurri non avevano mai vinto. La violò lui con due reti e nel '37 ripetè l' impresa a Praga: l' unica vittoria azzurra mai ottenuta in Cecoslovacchia. In nazionale segnò 30 gol in 34 partite; la guerra gli sottrasse gli anni della piena maturità. Con lui gli azzurri rimasero a bocca asciutta solo una volta (0-0 con la Francia nel '37). Disputò la sua ultima partita con loro a quasi 39 anni, pareggiando a Firenze con gli inglesi cui, anni prima, aveva segnato un gol di mano come Maradona. Militò nella Pro Vercelli (dove cominciò a giocare di nascosto dal padre), nella Lazio (dove lo volle il Fascismo), nella Juve e nel Novara (per un lunghissimo periodo): non vinse neppure uno scudetto. Preferiva la sua provincia: una sorta di Cincinnato del pallone. Nessuno incarnò meglio di lui la figura del goleador, i suoi slanci impetuosi e i suoi quieti silenzi.