"La vittoria italiana ai Mondiali del 1934 dipese in larga misura dalle sue spettacolose parate"
(Vittorio Pozzo)
Fusetta
Gianpiero Combi (Torino, 20 dicembre 1902 - Imperia, 13 agosto 1956) | Pentavalida
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E' scomparso il più popolare e il più amato dei vecchi calciatori
Vittorio Pozzo
"La Stampa", 15 agosto 1956
E' scomparso il più popolare e il più amato dei vecchi calciatori
Vittorio Pozzo
"La Stampa", 15 agosto 1956
Piero Combi è stato uno di quegli sportivi che, senza avere mal cercato la pubblicità, senza mai aver fatto un gran frastuono attorno a sé, ha lasciato una traccia dove è passato. Una traccia che è come un esempio da seguire. Perché quello che faceva era frutto di studio ed aveva carattere di profondità e di serietà.
Al giuoco della palla rotonda egli era venuto per passione. Ai suoi tempi non esistevano i lauti stipendi né i premi di partita o di ingaggio. I dirigenti erano nella grande maggioranza persone che conoscevano bene il giuoco perché lo avevano giuocato esse stesse: brava gente, alla quale piaceva, naturalmente, che la propria squadra vincesse, ma che si guardava bene dal portare certi concetti troppo commerciali nella gestione delle società, I giuocatori non venivano posti all'asta per pagare i debiti, le bustarelle non erano ancora state escogitate per ottenere di sottomano quello che non poteva essere ottenuto apertamente sul campo, la fedeltà ai colori sociali non aveva bisogno di essere premiata, tanto essa appariva cosa naturale. Le medaglie erano la sola cosa che facevano gola. Le medaglie e le cene dopo una bella vittoria.
In questo ambiente era cresciuto Combi. E voleva fare strada, fin da giovanissimo, e soffriva di dovere invece fare anticamera. Venne da noi un giorno, in corso Principe Oddone dove abitavamo, a chiederci consiglio, che si sentiva di giuocare come altri, che intendeva sfondare ed imporsi, che non voleva vivacchiare; chiedeva consigli per trovare la via del successo. E tanto lavorava, studiava, si applicava, che gradatamente, quasi senza accorgersene, al successo si avvicinava. Per tenersi aperta una via di emergenza, giuocava sovente anche all'ala sinistra. E intanto si formava un fisico di eccezione. Aveva le ossa dure che al solo passargli vicino c'era da farsi male, diceva qualche suo compagno. Sviluppato, proporzionato, snello meritava veramente quel titolo di atleta che ora si affibbia con tanta facilità a chiunque calchi i campi di giuoco. Quando la famiglia del Battaglione Susa del 3° Alpini lo attrasse ed accolse, era quello che si può definire un bell'alpino. Vi è a Viù, in una delle verdi valli a due passi da Torino, un monumento ai Caduti. Pochi sanno che Combi «posò» per la figura di quel soldato da montagna dalle forme scultoree. «Sicuro. Per le penne nere ho fatto anche il modello», diceva Piero sorridendo.
Voleva affermarsi, sfondare e diventare qualcuno: e si affermò, sfondò e divenne davvero qualcuno. Lo dicono i fatti e le cifre. Per una quindicina di stagioni fu il difensore classico della Juventus, per lunghi anni fu il portiere della Squadra Nazionale. Vinse cinque Campionati d'Italia: 1926, 1931, 1932, 1933, 1934. Difese in quarantasette incontri i colori italiani in gare internazionali. E finì per diventare Capitano degli Azzurri e vincere un Campionato del mondo. Formò, con Rosetta e Caligaris, uno dei più classici e più temuti terzetti difensivi d'Europa. Costituì collo spagnolo Zamora e col cecoslovacco Planicka il trio dei più decantati portieri del continente, per una diecina d'anni.
Di se stesso, non fece mai economia, nel senso fisico del termine. Audace nelle uscite, e temerario nei tuffi che eseguiva nei piedi degli avversari ed anche dei compagni, si buscò ferite su ferite. Toccato una volta duramente alla tromba d'Eustacchio, dovette rimanere alcune settimane lontano dai campi di giuoco: aveva perso il senso dell'equilibrio, e ci scherzava su, diceva che, diversamente da quei burattini che non cadono mai, lui cadeva non appena messo diritto.
Perché la giovialità ed il tono bonario, pur serio come era nell'esercizio delle sue funzioni, non lo abbandonavano mai. Era sano e forte, e prendeva tutto alla buona, anche i rabbuffi. Un giorno, dopo la vittoria per due a zero sulla Germania a Francoforte, venne a chiederci se eravamo contenti. Facendo il viso burbero, rispondemmo che no, che c'eravamo sbagliati, che la partita da vincere era non quella, ma l'altra, la seguente a Budapest. «L'è sempi I'autra», rispose in dialetto. Ed a Budapest si mise d'accordo coi compagni - che erano Monzeglio, Caligaris, Colombari, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza, Magnozzi e Orsi - e saltò fuori quel «5 a 0» che ci diede la Coppa Internazionale. «Anche stavolta si è sbagliato?», ci venne a chiedere alla sera.
Anche col concetto della morte scherzava bonariamente. Sapeva dell'agguato che certo male gli tendeva. Si curava, ma gli piaceva prendere in giro se stesso. «So la sorte che mi attende», diceva sorridendo. Proprio quella sorte che lo ha ghermito l'altro ieri. Diventava serio quando parlava della sua società. Non gli dispiaceva la nomina a Direttore Tecnico della Juventus. Ma voleva farlo pubblicamente gratis: che non lo si confondesse con certi dirigenti pagati del giorno d'oggi, che non si credesse che stava accanto ai Fratelli Agnelli per interesse o per lucro.
Li chiamano «uomini di una volta», questi. Sii fiero di esserlo stato, Piero. Se il mondo si deciderà un giorno a rinsavire, a quel prototipo che tu rappresenti esso dovrà ben ritornare. Noi per intanto teniamo il Tuo ricordo nel cuore. Anche se questo, a metterci troppe cose dentro, si stanca ed uccide. Come ha fatto con Te, che di continuare a vivere proprio meritavi.