Sandro Salvadore

 Old Billy


Alessandro Salvadore (Milano, 29 novembre 1939 - Asti, 4 gennaio 2007)
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In morte di Sandro Salvadore
di Maurizio Crosetti

I bambini juventini che andavano allo stadio tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, specialmente d' inverno, si chiedevano se Sandro Salvadore fosse un robot o una creatura dello spazio (allora il genere aveva molto successo). Perché portava le maniche arrotolate anche sotto la neve, e perciò non sentiva mai freddo. Neppure dolore, quando lo menavano e quando più spesso menava lui gli altri, mazzolando in difesa però con suprema eleganza. 
Non era umano con quella smorfia un po' truce, la faccia cattiva degli eroi da fumetto e il petto gonfio, e la statura da corazziere, e il coraggio dei temerari. Un duro di classe. Uno dei più forti difensori della storia del calcio italiano, anche se il suo nome non dirà nulla ai ragazzini di oggi che non credono ai pupazzi meccanici. Sandro Salvadore detto "Billy" è morto la notte scorsa. Aveva solo 67 anni. 
È stato un difensore moderno in anticipo sul calcio totale, perché lui arrivò prima degli olandesi. Faceva, benissimo, il libero - suo ruolo d'elezione - ma anche lo stopper o il terzino di fascia, diventando all' occorrenza centrocampista aggiunto e incursore d' area: 450 partite con la Juve e 24 gol spiegano che difensore fosse. Grande tempismo, sia nelle mischie da sbrogliare nella propria area sia in quelle da risolvere, magari con un colpo di testa vincente, in quella altrui. 
Milanese di nascita e formazione calcistica, con il Milan vinse due scudetti ('59 e '62) e tre con la Juventus ('67, '72 e '73), restando bianconero per dodici anni e saldando l'epoca di Heriberto Herrera (che lui di certo non amava) a quella di Boniperti presidente. A trentacinque anni, con 36 presenze in nazionale e 17 da capitano, più una Coppa Europa vinta (1968), lasciò il posto a un ragazzo timido che da lui imparò a essere meno grezzo ma proprio non gli riuscì di capire come diventare almeno un po' più cattivo. Si chiamava Gaetano Scirea. 
Uomo di poche parole e se necessario aspre, Salvadore è stato davvero un grande campione e avrebbe forse meritato di più, ad esempio in azzurro: sarebbe stato tra gli eroi del Messico se non avesse perso la nazionale per colpa di due sventurate autoreti nella stessa partita, il 21 febbraio 1970 contro la Spagna, a pochi mesi dal suo probabile terzo mondiale (aveva preso parte alle edizioni del '62 in Cile e del '66 in Inghilterra): Valcareggi decise che non era più il caso. 
Capitan Billy soffrì moltissimo, come sempre in silenzio. In quei momenti fuggiva da tutto e si rifugiava in famiglia oppure nei boschi, a caccia. Non dava soddisfazioni ma se ne tolse parecchie. Una volta si diceva: 'un signor giocatore'. 
"Non voleva mai perdere, era una persona speciale", ricorda Anastasi. "Era un maestro, la domenica andavamo a messa insieme", dice Bettega. "Arrivai alla Juve ragazzino, e Sandro era il mio compagno di camera: me ne ha insegnate, di cose", spiega Causio. "Un grande calciatore, un difensore con la classe di un centrocampista", afferma Morini. "Un punto di riferimento, un serbatoio inesauribile di consigli", sono le parole di Furino che da Salvadore ereditò la fascia di capitano e il dovere del carisma, quella forza d' urto anche morale che trascina gli altri nei momenti difficili, però devi averla già dentro. È merce pregiata che non si compra.
I tifosi juventini più memoriosi e nostalgici ricorderanno Salvadore nelle epiche sfide contro il Benfica, quel suo uscire dall'area a testa alta, coordinandosi alla perfezione anche nei momenti di tempesta, tra le onde oceaniche delle partite più tremende. Un pilastro. A volte diluviava, in quelle remote notti di Coppa dei Campioni, ma la nebbia dentro le tivù in bianco e nero non impediva di ammirare un uomo con le maniche arrotolate, uno di quelli che non sentono mai freddo.

"La Repubblica", 5 gennaio 2007.