La solitudine dei numero dieci

[Dedicato a Roberto Baggio]

di Edmondo Berselli

Il brasiliano possiede tutte le doti del fuoriclasse, dal tiro al palleggio, dal dribbling al colpo di testa e all'assist. Ma basta guardare il nano malefico ed esclusivamente mancino Diego Armando Maradona, e osservare il modo in cui accarezza il pallone con il sinistro, per immaginarne di lì a poco le invenzioni sataniche, gli scatti furenti, la "rabona" per inventare un cross da una posizione impossibile per il suo destro e all'occorrenza un tiro senza possibilità di salvezza per il portiere avversario. 

Il dieci imprime il suo marchio su una squadra. Roberto Baggio lo ha lasciato su diverse compagini, ma piace ricordarlo già quasi anziano nel Bologna di Renzo Ulivieri, che lo amava e lo maltrattava: e lui - il Codino divino, il "fanciullo ferito" del poeta 'Nando Acitelli, il "coniglio bagnato" dell'Avvocato, il "nove e mezzo" di Platini che non gli riconosceva la pari dignità con il se stesso juventino, il salvatore e poi l'affossatore di Arrigo Sacchi al mondiale americano del 1994 - lo ricambiava con prodezze domenicali, gol inventati quasi ogni domenica con calci di punizione di eccezionale talento balistico e con i colpi di una classe mai del tutto vulnerata dalla fragilità fisica. 


Lo si era visto da ragazzo nella Fiorentina, prima di andare a conquistare gloria dappertutto, reduce da disastrosi infortuni alle ginocchia, folleggiare in campo con i suoi dribbling danzanti, distruggendo in contropiede la difesa del Milan e mostrando i colpi e le trovate distillate dal genio: colui che, mentre gli altri giocano a calcio, interpreta la partita e la condiziona chiamando a raccolta mentalmente tutte le energie dell'universo. Una pratica zen, una preghiera buddista, un mantra di risonanza cosmica in cui si intravede il suo karma di campione che lo porterà via via a reincarnarsi qua e là (per poi spendere gli ultimi spiccioli della sua classe infinita nel Brescia, sbalordendo la serie A con le sue invenzioni estreme, in un tramonto huizinghiano, un autunno del fuoriclasse in cui il piacere del gioco supera il dolore alle ginocchia e tutti gli altri acciacchi di chi, mentre vede i capelli ingrigirsi precocemente, sente le articolazioni scricchiolare a ogni spunto). 

È stato, "Robi" Baggio, una delle ultime apparizioni di un calcio in cui la tecnica riusciva talvolta a superare la struttura muscolare e batteva la forza brutale dell'atletismo fabbricato dagli istruttori. Come Mariolino Corso, un dieci camuffato dal numero undici, il cui sinistro prensile umiliava in dribbling e con le "foglie morte" le difese degli anni Sessanta. Oppure come il piccoletto Zola, che assai più tardi avrebbe imparato il mestiere di fuoriclasse da Maradona e avrebbe esportato l'inventiva italiana a illuminare i brumosi terreni inglesi. 

A ripensarci, viene in mente che è destino di quasi tutti i numeri dieci, se si esclude Pelé, avere nel corredo genetico il gene dell'incompiutezza. Maradona e Corso erano monopodalici, in altri casi il gusto del dribbling e del gol non era confortato dal carattere o dallo spirito di sacrifico per la squadra. Già il dieci è spesso egoismo puro. E, nel caso di Baggio, l'egocentrismo, fatto di riservatezza e della capacità di porre barriere fra sé e il mondo, gli ha forse impedito di diventare ciò che poteva essere, vale a dire un giocatore in grado di sconvolgere il calcio mondiale. Difficile dire che cosa gli sia mancato: un rigore in America, un paio di ginocchia di ricambio, un'indole più estroversa, chissà. Ci si è dovuti accontentare dei riflessi in uno specchio spesso in frantumi: bagliori accecanti, inganni strepitosi, che adesso si possono ricomporre nella memoria, e nell'affetto che i ricordi sempre suscitano.

"La Repubblica", 24 agosto 2008