In morte di Enrique Omar Sívori

Gianni Mura, La Repubblica, 18 febbraio 2005

Povero Cabezon, aveva cominciato a morire quando gli era morto, ancora giovane, un figlio. E la vita gli era sembrata più piccola e amara, nella vasta tenuta di San Nicolas. Sivori aveva investito nella terra, nell'allevamento del bestiame. Era stato troppo geniale e particolare per allevare calciatori, troppo individualista per fare l'allenatore. 
Lui gli allenatori li faceva impazzire, di felicità o di rabbia, dipende. Con Heriberto Herrera fu scontro frontale. Il ginnasiarca paraguagio, come lo chiamava Brera, era un teorico del «movimiento», tutto il contrario di quel che piaceva a Sivori. Stiamo parlando di un calcio allo stato brado, questo sì sarebbe piaciuto a Soriano. Sivori era furbo, molto, e in possesso di un sinistro abbagliante. A Napoli, dove si erano beati con entrambi, stabilirono che solo il sinistro di Maradona era superiore a quello di Omar Enrique Sivori, pure lui provvisto di un fisico non vistoso ma compatto.
Era arrivato in Italia nella stessa infornata di Angelillo e Maschio, detti «los angeles con la cara sucia», gli angeli con la faccia sporca. Tutti e tre si erano laureati, come Di Stefano, all' università della strada. Maschio era un centrocampista portato alla regia, Angelillo un goleador travestito da ballerino di tango (quel filo di baffi, quella scriminatura impeccabile), Sivori un fantasista per vocazione e provocazione. Erano oriundi, giocarono nella Nazionale azzurra senza lasciare grandi tracce. Sivori fece anche parte della spedizione cilena del ' 62. Senza storia, si ricordano due gol suoi in un 6-0 a Israele, nel girone di qualificazione, a Torino.
Parlavo di Sivori con Pesaola, un mesetto fa. «Se Omar si fosse allenato, sarebbe stato forse il più grande» diceva Pesaola. Già così, allenandosi poco e malvolentieri, è stato grandissimo. Giocava col pallone come un gatto col gomitolo, teneva sempre i calzettoni abbassati (alla cacaiola, diceva Brera), senza parastinchi, sostenendo che gli dava fastidio l' elastico, che gli toglieva sensibilità alle gambe. Molti e molti anni dopo, quando collaborava con la Rai, mi pare fossimo in Russia, tra una sigaretta e l' altra mi disse che lo faceva perché riteneva più difficile che i difensori picchiassero uno che si presentava così disarmato. 
Di botte ne prendeva, ma erano più numerose quelle che dava. Erano gli anni, lo dico per i più giovani, in cui lo stopper o il libero tiravano coi tacchetti una riga fuori dall' area di rigore e dicevano agli attaccanti: se la passi ti rompo una gamba. Sivori non solo la passava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l' avversario facendogli tunnel, e magari aspettandolo, per farglielo una seconda volta. E così un giorno a Torino uno stopper del Catania, Grani, gli disse: al ritorno ti rompo una gamba. E Sivori, calmissimo: va bene, ma cerca di fare presto altrimenti te la rompo prima io. E così andò, col piede di Sivori a martello sul ginocchio di Grani. I vecchi a Padova si ricordano ancora del loro portiere (Moro o Pin, ho questo dubbio) che becca un gol su rigore e rincorre Sivori fino agli spogliatoi anche se l' arbitro non ha ancora fischiato la fine. La Juve vinceva di tre o quattro gol, mancava poco. Occhiata implorante del portiere a Sivori che dice: non ti preoccupare te lo tiro sulla sinistra. Moro - o Pin - si butta e la palla va dall' altra parte. 

Sivori era fatto così. Però Bearzot, che l' ha dovuto marcare diverse volte con la maglia del Torino, ed erano derby di fuoco, mi ha detto che a lui di tunnel Sivori non ne ha mai fatti. «Omar sapeva essere carogna con le carogne, se uno lo marcava duro ma leale anche lui era leale». Gli Agnelli e tutto il pubblico juventino stravedevano per Sivori, pur sapendo della sua enorme passione per il poker notturno, il whisky e le sigarette. Non stravedeva Boniperti, che preferiva l'onesta fatica di Charles, da servire con passaggi lunghi e dritti. Mentre Sivori voleva la palla sul piede, da fermo (un po' come Cassano adesso) e poi ci pensava lui a trasformarla in un fuoco d'artificio. 
O lui o io, disse Heriberto. Così Sivori andò al Napoli, dove diventò lo scugnizzo, anche se non era più di primo pelo, e i tifosi cantavano «vide omàr quant'è bello». E quando arrivò la Juve vinse il Napoli, gol di Altafini su assist di Sivori. Sivori andò a prendere il pallone nella porta della Juve, andò piano verso il centrocampo e arrivato all'altezza della panchina di Heriberto gli tirò il pallone addosso. Ma non volgarmente, con forza, no, un tocchetto leggero, da gatto. Altre volte reagiva da toro. In una partita col Real lo sfotteva in continuazione Pachin: ti manca solo la piuma in testa per essere un indio. La risposta di Sivori fu una tremenda craniata sul naso. 
E' vero che non s' è mai allenato bene, non riteneva di averne bisogno. Col pallone faceva quello che voleva, e allora bastava la tecnica a fare la differenza. L'etichetta di genio e sregolatezza gli va a pennello, pochi hanno raggiunto la sua perfezione nel dribbling e, se ne aveva voglia, dell' assist. Poco diplomatico da giocatore, non era cambiato da commentatore. Andava giù piatto, giudizi netti, forse troppo per la prudenza dell'emittente di Stato. Il calcio della tonnara non gli piaceva e non faceva nulla per nasconderlo. Era sincero, anche a costo di ferire. Qualche bugia l' aveva raccontata, pro domo sua. Come quando Brera gli chiese da che zona fossero arrivati in Argentina i suoi. Da Pavia, rispose prontamente Sivori che aveva i suoi informatori. Invece venivano da Genova. Ma da quel giorno, giudicandolo un paìs, Brera prese sotto l'ala l'imprevedibile mattocchio. Gli sia lieve la terra, è il minimo che si possa dire a chi ci ha fatto divertire quando giocare a calcio significava solo quello, giocare.